Mentre aspettano il ritorno da scuola di Valerio, diciannove anni appena compiuti, militante di sinistra, legano e imbavagliano i suoi genitori. Questi, chiusi nella camera da letto, sentono le grida del figlio e i colpi di pistola che lo uccideranno.
Non si arriverà mai all’individuazione degli esecutori dell’assassinio di Verbano e l’inchiesta verrà definitivamente archiviata, a oltre quarant’anni dal delitto, il 30 novembre del 2021.
Nelle scorse ore ho ascoltato e riascoltato il messaggio di Giorgia Meloni inviato in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Sergio Ramelli (29 aprile 1975), iscritto al Fronte della gioventù del Movimento sociale italiano, ucciso non ancora diciannovenne da un gruppo di militanti di estrema sinistra.
Ho cercato vanamente nelle parole della presidente del Consiglio un qualche riferimento, anche solo una traccia o una allusione, a Valerio Verbano o a Gaetano Amoroso, accoltellato a morte da un gruppo di neo-fascisti, sempre a Milano, esattamente un anno dopo la morte di Ramelli. O a Mario Lupo, Claudio Varalli, Alceste Campanile, Walter Rossi, Roberto Scialabba e altri ancora, tutti militanti di sinistra che hanno trovato la morte per mano fascista.
Appena un riferimento generico, troppo generico, alla necessità di «accumunare in uno sforzo di verità e pacificazione tutte le vittime innocenti dell’odio e della violenza politica».
L’intero discorso di Giorgia Meloni sembra esplicitamente indirizzato alla propria parte politica e si iscrive perfettamente nella retorica identitaria e nella letteratura epica e combattente delle generazioni neo-fasciste attive negli anni Settanta e Ottanta.
Non basta affermare – ed è giusto dirlo e ribadirlo – che l’aggressione a Sergio Ramelli fu un’azione barbara: è doveroso criticare e autocriticare quella che fu la reticenza, e fin l’omertà, di una parte della sinistra dell’epoca (e di chi scrive) a proposito di quel crimine e, più in generale, dell’omicidio come strumento di lotta politica.
Se questo non verrà fatto con altrettanta impietosa sincerità da parte della destra rimarremo prigionieri del passato e incapaci di affrancarcene. E saremo costretti a ricorrere ancora a quell’artificio retorico cui inducono l’emozione e la passione, ma di cui si avverte l’irreparabile povertà: e allora Valerio Verbano?
Se la “guerra civile simulata” degli anni Settanta dovesse perpetuarsi attraverso le contabilità contrapposte dei rispettivi martirologi, elaborare insieme quei lutti resterà una impossibile impresa politica e morale.
LUIGI MANCONI - La Repubblica 1 Maggio 2025 -
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