sabato 23 maggio 2020

PROSTITUZIONE :LAVORO O SFRUTTAMENTO ?

 Di Luciana Tavernini

In questo periodo di pandemia la lobby dell’industria prostitutiva ha cambiato tattica per ripulire questa forma diffusa di sfruttamento. Se prima si insisteva a chiamarla sex work, sottolineandone la “libertà” e i guadagni che ne deriverebbero tramite le tasse per lo Stato, trasformandolo in pappone e quindi ripulendo anche questa figura, ora si insiste sulla condizione di indigenza e precarietà delle donne prostituite per mancanza di “clienti” e proponendo non vie di uscita da questa condizione ma suggerendo che basterebbe riconoscerla come lavoro, per superare qualsiasi problema. Quando un abuso diventa evidente a gran parte dell’opinione pubblica, chi ci guadagna (l’industria prostitutiva è la terza per guadagni illeciti, dopo quelle delle sostanze psicoattive illegali e delle armi) cerca di mascherarlo, cambiandone il nome. Come scrive Julie Bindel in Il mito Pretty Woman (VandA edizioni) - un’inchiesta durata ben due anni con oltre 250 interviste a tutti i tipi di persone coinvolte nell’industria prostitutiva in varie parti del mondo - più di un secolo fa un sostenitore della schiavitù, diceva «Invece di chiamarli schiavi, utilizziamo per i negri il termine assistenti di piantagione, e smetteremo di sentire proteste violente contro il commercio degli schiavi da parte di profeti moralisti, poetesse dal cuore tenero e politici dalla vista corta».

È un’antica tattica che fa presa anche oggi. Come è possibile che, usando parole come sex work, non ci si renda conto di appoggiare e diffondere modalità sessuali patriarcali e posizioni del neoliberismo più sfrenato? Non c’è sesso senza scelta libera del partner (quante battaglie negli ultimi decenni perché si potesse scegliere con chi stare), e neppure senza reciprocità del piacere. Altrimenti è sempre stupro a pagamento, come lo nomina Rachel Moran, una sopravvissuta alla prostituzione nel suo imprescindibile e omonimo libro (Round Robin editore).
Molte donne hanno imparato che non era meno doloroso il sesso senza reciprocità, anche se era legale e lo chiamavano dovere coniugale. Chiamare la prostituzione lavoro è un modo per convincerci che tutto, perfino l’accesso all’interno del nostro corpo, può e deve essere venduto e al massimo possiamo lottare per alzarne il prezzo. È un modo per farci smettere di lottare per la dignità del lavoro. È un vecchio trucco cancellare lo sfruttamento col nome di lavoro. Ci ricordiamo la scritta Arbeit macht frei intrecciata nei cancelli dei campi di concentramento? Serviva a nascondere, non a liberare chi era imprigionato/a e rendeva ancor più difficile uscirne. E per la prostituzione, a conferma di questo, in Germania, come documenta Daniela Danna in Né sesso, né lavoro (VandA edizioni) ci è voluto un parere del Consiglio di Stato nel 2009 per impedire alla tenutaria di un bordello di accedere alle liste di disoccupazione per cercare “lavoratrici”, pena la perdita del sussidio, e nel 2003 a Monaco si è dovuto stabilire che una ex moglie nullatenente non fosse costretta a prostituirsi dal marito che non voleva pagarle gli alimenti.



E con sex work che altro si vuole nascondere? Che la grandissima maggioranza di chi è nella prostituzione è composta da donne e quasi nessuna lo fa per scelta. Non è certo libertà di scelta accettare di non usare il preservativo per bisogno di denaro e prendersi l’Aids; non poter fare i lavori per cui si è studiato e che si vorrebbero fare (la sarta e la parrucchiera), come si racconta nelle testimonianze riportate anche da un quotidiano nazionale di sinistra in un articolo che sostiene la decriminalizzazione, altra parola inventata per rendere più facile lo sfruttamento. Si nasconde che la maggior parte è composta da migranti, spesso arrivate in Italia con la tratta.
Chiediamo invece che vengano dati permessi di soggiorno e percorsi per l’inserimento lavorativo a tutte le donne che vogliono uscirne. Finanziamoli. Invece di spendere miliardi per aerei da guerra, attuiamo la legge Merlin, anche nella parte che prevede formazione e inserimento lavorativo. Il militarismo si nutre attraverso l’idea e la possibilità di imporre con la forza, anche del denaro, il proprio volere su chi ti è più vicino. E chi è più vicino di chi è nel letto con te? Decriminalizzare la prostituzione non significa decriminalizzare le prostituite: in Italia la legge Merlin lo fa già, e vieta, coerentemente con la Costituzione, lo sfruttamento della prostituzione altrui precisando le fattispecie di reato ad essa connesse, come ben argomenta la costituzionalista Silvia Niccolai nel già citato Né sesso né lavoro e come ha confermato la Corte Costituzionale con la sentenza del marzo scorso, proprio nel giorno dell’uscita del libro. Decriminalizzare significa invece rendere accettabile l’industria prostitutiva, ad esempio trasformando gli sfruttatori in “manager”, le violenze e le malattie sessuali in “rischio sanitario sul lavoro”, la capacità di rifiutare clienti e prestazioni indesiderate in “vantaggi lavorativi”. Tutto per facilitare l’apertura di bordelli, magari ribattezzati “cooperative di lavoratrici”.

In Nuova Zelanda, dove vige la decriminalizzazione, basta un modulo di due facciate per aprirne uno, meno di quello richiesto per prendere un cane dal canile. Un bell’aiuto per la criminalità organizzata. Invece di aiutare le donne che vogliono uscirne, si creano nuove barriere che impediscono di vederne i danni come subire violenza fisica (70%-95%,), gli stupri (60-75%), le molestie (95%) che in un’altra industria avrebbero conseguenze legali, come riferisce il sito Prostitution Research and Education. È spiegabile che molti uomini, quelli che non conoscono l’intensità e la varietà del piacere reciproco nella sessualità libera, preferiscano edulcorare la realtà prostitutiva. Ma perché anche delle donne?
Come è diventato evidente col Me Too l’esperienza delle molestie e dell’incesto, inteso come qualsiasi azione a scopo sessuale fatta su una giovane da un uomo legato in qualche modo alla madre, è diffusissima e crea confusione rispetto al proprio sentire, non solo nelle relazioni sessuali. Dunque alcune preferiscono non vedere. Per altre donne l’esistenza stessa della prostituzione costituisce uno stupro simbolico: per il solo fatto che sei donna, si può violare il tuo corpo; basta avere la forza del denaro e stabilirne un prezzo. Un modo per farti sentire una cosa.
Come scriveva Simone Weil, «la forza rende chiunque gli è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine. Poiché lo rende cadavere».
Ma dall’orrore della reificazione si esce guardando la realtà, dicendola innanzi tutto a se stesse e prendendo parola per dirla pubblicamente.

Luciana Tavernini impegnata nelle attività della Libreria delle di Milano, insegna con Marina Santini al master in Studi della differenza sessuale presso l’Università di Barcellona il corso di Storia vivente su cui, con altre, ha pubblicato La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi (Moretti e Vitali, 2019). Ha scritto saggi su Rosvita di Gandersheim e Cristina di Belgiojso; con Santini una storia del femminismo italiano Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, 2015); con Danna, Niccolai e Villa, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione (Vandapublishing, 2019). Ha organizzato e partecipato a incontri per l’abolizione della prostituzione. Si occupa di poesia anche con recensioni e incontri.


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