Nessuno discute sulla liceità della cospicua "mancia" offerta all’uomo senza il quale non ci sarebbero né la Lega né i leghisti: il problema, al di là che la politica non finisce mai di sorprendere, è infatti un altro. Fermo restando che dei propri soldi ciascuno fa quello che gli pare, c’è da domandarsi da dove arrivi una tale somma destinata alle esigenze personali del Senatùr, «500mila per le spese di segreteria e di cura del presidente del partito: assistenti per la malattia, autisti, aiutanti. 150 mila senza causali particolari. Una sorta di stipendio per Bossi. Il rimanente per finanziare la scuola Bosina, gestita, a Varese, dalla moglie del presidente dei padani, Manuela Marrone». Domanda, da dove arrivano tutti questi danèe? Dal finanziamento pubblico ai partiti, cioè dalle tasche degli italiani. Ci fermiamo: qualunque considerazione nel merito rischierebbe di essere fraintesa. Le conclusioni, attorno a una simile notizia, ognuno le tirerà da solo. Ma il discorso non può esaurirsi qui: sarebbe parziale e non renderebbe giustizia alla Lega, che, evidentemente, non è l’unico partito a ricevere, in proporzione ai risultati elettorali e senza obblighi particolari di rendicontazione, il fiume di denaro distribuito da Roma. Uno scandalo o, se preferite, una vergogna nazionale a cui la politica ha attinto e attinge a piene mani. Tutti mungono da lì, anche i gruppi senza più voce in capitolo o, addirittura, disciolti. Spinto dall’indignazione popolare, il governo di Enrico Letta ha presentato l’altro ieri un disegno di legge sul taglio di simili contributi, che nelle migliori delle ipotesi andrà a regime fra tre o quattro anni. Ma è già qualcosa rispetto a un andazzo inaccettabile, soprattutto in considerazione al particolare periodo, alla drammatica congiuntura, ai posti di lavoro che non ci sono più, alle pesanti, pesantissime difficoltà della gente comune. La quale non sapeva che cosa ci fosse sullo sfondo dei contributi pubblici. I Lusi, i Fiorito, i Belsito e tutta la compagnia di giro venuta a galla, in senso trasversale, nell’ultimo periodo ha svelato l’indicibile. Ora un poco conosciamo. Anche che quei soldi non sono affatto a rimborso per le spese sostenute in campagna elettorale, ma servono o servivano per l’arraffo o l’arricchimento dei tesorieri di turno e per pagare conti che non hanno alcuna giustificazione rispetto alla causale per cui dovrebbero essere saldati. Bene che vada sono utilizzati per il mantenimento delle strutture e delle decine e decine di persone che lavorano per il partito beneficiario. Tant’è vero che subito, appena Palazzo Chigi ha reso noto il ddl di abrogazione dei contributi, s’è levata la protesta dei tesorieri. «Scelta incostituzionale e demagogica» hanno commentato alcuni. Avrebbero ragione se il finanziamento fosse mirato ai puri costi della corsa alle urne, con bilanci trasparenti, leggibili da tutti, che contengano le voci per cui si sono spesi i denari della collettività. Avrebbero ragione, ma si fa per dire: non dovrebbe funzionare così e i partiti, come prevede il disegno di legge, dovrebbero autofinanziarsi attraverso altre vie, lecite e decifrabili, non a sbafo come è accaduto sinora. Stiamo dicendo cose ovvie, che in uno Stato normale mai si porrebbero. In Italia però è sempre andata in un certo modo. E il fatto che le segreterie politiche dovranno effettuare consistenti sforbiciate nei bilanci (la Lega ha già discusso la sua spending review venerdì, prospettando tra l’altro la riduzione a un terzo dell’appannaggio a Bossi) rischia di suscitare l’ennesima bufera, fino al punto che per non parlarne più si parlerà d’altro. Tanto gli argomenti non mancano. Poi c’è chi si sorprende se la gente diserta le urne.
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