"La sicurezza delle cure, - si legge in un passo della sentenza - si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative. In ragione di questo generale principio, che precede l’attuale emergenza epidemiologica ed implica la sicurezza anche di chi cura e del luogo di cura oltre che del come si cura, è lecito attendersi dal paziente bisognoso di cura e assistenza, che si rechi in una struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, ed è doveroso per l’ordinamento pretendere che il personale medico od infermieristico non diventi esso stesso veicolo di contagio, pur sussistendo un rimedio, efficace e sicuro, per prevenire questo rischio connesso all’erogazione della prestazione sanitaria. Sarebbe – e in taluni casi verificatisi in Italia a vaccinazione già avviata, purtroppo, è stato – un macabro paradosso quello per i quali pazienti gravemente malati o anziani, ricoverati in strutture ospedaliere o in quelle residenziali, socio-assistenziali o socio-sanitarie , contraessero il virus, con effetti letali per essi, proprio nella struttura deputata alla loro cura e per causa del personale deputato alla loro cura, refrattario alla vaccinazione".
"Una simile evenienza, che il legislatore ha voluto scongiurare introducendo, come si è detto, l’obbligo vaccinale per il personale sanitario, costituirebbe (ed ha costituito) un grave tradimento di quella «relazione di cura e fiducia tra paziente e medico» e, più in generale, tra paziente e gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’équipe sanitaria, un ripudio dei valori più essenziali che la medicina deve perseguire e l’ordinamento deve difendere, a cominciare dalla solidarietà, concetto, questo, spesso dimenticato, come taluno ha osservato, in una prospettiva esasperatamente protesa solo a rivendicare diritti incomprimibili.
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