
Mercoledì 25 settembre, Siracusa. Il nostro Polibus è, come da due mesi a questa parte, fuori dall’Umberto I, il centro dove vengono ospitati i migranti – uomini, donne, bambini – che sbarcano sulle coste del siracusano. Molti di loro vengono dalla Siria, in fuga dal conflitto che sta dilaniando il Paese.
Verso sera ci chiamano dal centro per visitare una donna. È in pieno attacco di panico, è agitata, ipotesa, ha il respiro corto e frequente, parla del viaggio e della Siria, urla per chiedere aiuto. Trema. Suo figlio, un bimbo di quattro anni e mezzo, ha 39,8 di febbre. Chiamiamo l'ambulanza per portarli in ospedale. Un’altra figlia e il padre sono già ricoverati. Intanto diamo la tachipirina al bambino e lo copriamo con sacchetti di ghiaccio per far scendere la temperatura. Ci guarda spaventato, gli parliamo in arabo per tranquillizzarlo. La madre si alza di scatto e sviene. Gli occhi del bambino si fanno lucidi, scoppia in un pianto di sole lacrime, senza singhiozzi o rumori. Nella stanza, con noi, c’è anche il fratello maggiore, anche lui attonito. Nella stanza, con noi, c’è tutto l’orrore della guerra. -- Daniela, medico sull'ambulatorio mobile di Emergency a Siracusa
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